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Quali sono le mosse per pianificare la longevità lavorativa?

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Quali sono le mosse per pianificare la longevità lavorativa?

Come diventare ‘longennials’? Risponde Intoo, società di Gi Group, che condivide alcuni consigli per una pianificazione della propria longevity professionale a seconda dell’età, della storia lavorativa e dei propri bisogni e desideri. Quando ci si affaccia a un’età matura è importante riprogettare le aree della propria esistenza lavorativa, da come e con quanto andare in pensione a come proseguire a lavorare.
Del resto, oggi diversi fattori portano a un ripensamento generale della vita in termini di longevità. Da un lato la riduzione degli assegni pensionistici, dall’80% dell’ultima retribuzione secondo il sistema retributivo al 65% con il passaggio a quello contributivo. Dall’altro, l’allungamento della vita media: gli over 65 oggi sono il 23,5% della popolazione.

Per i 50enni è il momento di svolta

Per i 50enni è spesso l’età del momento di svolta tra rimanere in azienda o uscirne cogliendo tutte le formule professionali disponibili, da libero professionista a consulente a partita Iva, in quota in una società o avviando una propria micro impresa, per mettere a frutto l’esperienza maturata. Importante monitorare sempre la propria situazione previdenziale, per avere come primo obiettivo la continuità contributiva, nonostante l’eventuale discontinuità lavorativa. Per i 60enni questa è l’età in cui valorizzare al meglio l’excursus professionale maturato, comprendendo su quali ambiti diventare un riferimento come coach o mentor, o rilanciandosi in realtà del terzo settore. Utile, poi, prendere in considerazione versamenti volontari se mancano pochi mesi al raggiungimento dei requisiti previsti per le pensioni anticipate, ovvero, 41 anni e 10 mesi se donna, 42 anni e 10 mesi se uomo (fino a il 2026).

Garantirsi la continuità contributiva

Se serve occorre, quindi, valutare le modalità percorribili per il superamento di una possibile discontinuità lavorativa. Come ad esempio, la scelta opportuna delle casse previdenziali se lavoratore autonomo/lavoratore con partita Iva e la valutazione della convenienza se proseguire come dipendente in presenza di offerta di retribuzioni ridotte rispetto al pregresso. La continuità contributiva permette di vagliare meglio le alternative pensionistiche esistenti. Ad esempio, nel caso in cui a una lavoratrice manchino contributi per accedere a Opzione Donna (35 anni di anzianità contributiva), utile anche la valutazione del riscatto di laurea, sia in regime ordinario sia in regime agevolato.

Anche i pensionati possono avere un’attività professionale 

Inoltre, per tutti coloro che anche se pensionati o che hanno già raggiunto il traguardo pensionistico, vogliono proseguire un’attività professionale si aprono prospettive di miglioramenti successivi in termini di valore della propria pensione, in quanto i redditi derivanti da pensione sono compatibili e cumulabili con reddito da lavoro, sia dipendente sia autonomo. Solo alcune pensioni anticipate (ad esempio, Quota 100/102/103) non prevedono questa possibilità fino a quando non si è raggiunta l’età per la pensione di vecchiaia.

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Il lavoro ibrido fa bene alla salute

Posted by Massimo Miceli on
Il lavoro ibrido fa bene alla salute

Con il lavoro ibrido i lavoratori sono più sani perché hanno più tempo da dedicare a esercizio fisico, riposo e alimentazione corretta. Secondo una ricerca condotta da IWG il tempo risparmiato grazie alla riduzione del pendolarismo porta a molteplici benefici per la salute e il benessere di chi lavora: perdita di peso, migliori abitudini alimentari, migliore salute mentale e sonno più lungo.
Di fatto, il lavoratore ibrido medio, oggi, dedica all’esercizio fisico 4,7 ore la settimana rispetto alle 3,4 precedenti la pandemia. Le attività più comuni? Camminate, la corsa, ed esercizi per la resistenza.
Quanto al sonno, il tempo in più trascorso a letto ogni mattina equivale a 71 ore (tre giorni) di sonno in più all’anno.

Migliorano le abitudini alimentari

Per il 70% degli intervistati lavorare in modalità ibrida permette di preparare una colazione sana ogni giorno, mentre il 54% ha più tempo da dedicare alla preparazione di pasti nutrienti durante la settimana. Inoltre, consumano più frutta (46%) e verdura fresca (44%), il 20% mangia più pesce e un quarto ha diminuito il consumo di dolci. Inoltre, grazie a più esercizio fisico, riposo migliore e alimentazione più sana il 27% degli intervistati dichiara di aver perso peso dall’inizio della pandemia. Due su cinque (42%) hanno perso tra i 5 e i 9,9 kg, mentre il 23% ha perso più di 10 kg. I principali fattori che hanno contribuito alla perdita di peso sono stati poter dedicare più tempo all’esercizio fisico (65%) e cucinare pasti sani (54%).

Più tempo libero e meno stress

Di fatto, il lavoro ibrido ha ridotto gli spostamenti, quindi ha portato a un risparmio di tempo, ma ha anche portato aumenti di produttività. Quasi quattro persone su cinque (79%) affermano di essere più produttive rispetto al periodo pre-pandemico, soprattutto grazie a minori livelli di stress (47%) e più tempo a disposizione per rilassarsi dopo il lavoro (46%). 
“Anche la gestione dello stress e i legami sociali sono incredibilmente importanti per il benessere mentale, e un equilibrio sano tra lavoro e vita privata, è essenziale per raggiungerli”, commenta la dottoressa Sara Kayat. 

Aumentano produttività e salute mentale

Secondo una ricerca di Nicholas Bloom, economista della Stanford Graduate School of Business, grazie al lavoro ibrido la produttività complessiva è aumentata del 3%-4%. E con una maggiore produttività al lavoro e più tempo libero i vantaggi sono sia per le aziende sia per il personale.
L’81% dichiara di avere più tempo libero rispetto a prima del 2020, e la maggior parte lo impiega in attività che incrementano la salute e il benessere, come trascorrere più tempo con famiglia e amici (55%), fare esercizio fisico (52%) o una breve passeggiata durante la giornata (67%). Tutti fattori, riporta Ansa, che hanno un effetto positivo anche sulla salute mentale. Non sorprende quindi che due terzi degli intervistati (66%) ritengano che la loro salute mentale sia migliorata. 

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La “tempesta perfetta” del 2022 e i trend del futuro 

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La “tempesta perfetta” del 2022 e i trend del futuro 

Nell’edizione 2023 del report Un anno di Tendenze, GS1 Italy ha raccolto una sintesi dei contenuti e dei temi chiave che hanno caratterizzato lo scorso anno.
“La piega, inattesa e drammatica, che hanno preso gli eventi ci ha costretti a fare i conti con uno scenario completamente diverso e quanto mai ingarbugliato – commenta Francesco Pugliese, presidente GS1 Italy -: una ‘tempesta perfetta’ che ha avuto, e avrà ancora a lungo, effetti molto concreti e pratici sulla nostra vita quotidiana”.
I fatti che hanno caratterizzato il 2022 ci hanno infatti traghettato in un mondo diverso, distinto da nuove abitudini e trend emergenti che ci accompagneranno nel corso del 2023, e probabilmente, anche oltre.

Dopo il Covid un altro tsunami sull’economia

Con la guerra russo-ucraina è arrivato un altro tsunami sull’economia, già provata dalla pandemia: il caro bollette si aggiunge a una crisi sociale delle famiglie, e pesa come un macigno sui conti delle aziende. E per le imprese del largo consumo e del retail si tratta di ripensare ai modelli organizzativi interni e alla relazione tra industria e distribuzione. Di fronte all’incalzare dell’inflazione le strategie messe in atto dal consumatore prevedono una spending review dei beni non essenziali, che diventa però anche un nuovo modo di intendere il consumo: più flessibile, variabile, distintivo, frammentato e contraddittorio. Con alcuni punti di riferimento però non negoziabili (la ricerca della convenienza, l’intercambiabilità dei canali di acquisto, la condivisione dei valori), che rendono necessari nuovi strumenti di analisi qualitativa e quantitativa.

Omnicanalità e standard globali

Nella nuova economia digitale i lavori relativi all’innovazione non si fermano, scandagliano nuovi canali e nuove tecnologie, e convergono in una direzione precisa: il rafforzamento dell’omnicanalità declinata nelle forme più diverse. A beneficiarne sono i percorsi di acquisto dei consumatori, ma per le aziende è fondamentale mettere a punto processi efficienti offline e online, per esperienze senza frizioni. Inoltre, il progresso tecnologico a livello globale trae maggiore forza dalle regole di un linguaggio comune, capace di rendere più efficienti i processi e le relazioni professionali, e viceversa.
Il sistema degli standard globali è la pietra miliare su cui si fonda il futuro sostenibile della società contemporanea, delle attività economiche, della salute, e dei consumi.

Sostenibilità e sinergie di filiera

La lotta al cambiamento climatico e alle disuguaglianze è in cima all’agenda della normativa europea e delle istituzioni internazionali, che indicano una direzione precisa alle aziende e ai cittadini. Strumenti e soluzioni che a essa si richiamano, sostengono e guidano gli sforzi delle imprese verso pratiche sempre più sostenibili. E il retail può essere uno dei protagonisti. Chiamate a ripensare i processi, a sperimentare soluzioni innovative e ad attivare sinergie capaci di ottimizzare la filiera con vantaggi economici e ambientali, le imprese del settore del largo consumo possono ottenere risultati solo condividendo le esperienze e le iniziative di successo. Per farle diventare patrimonio di conoscenza a disposizione di tutti.

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Quali sono i benefit aziendali che attirano più talenti?

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Quali sono i benefit aziendali che attirano più talenti?

Secondo l’ultimo Bollettino predisposto dal Sistema informativo Excelsior Unioncamere, in collaborazione con ANPAL la difficoltà di reperimento del personale è pari al 66% per le figure dirigenziali e del 62% per gli operai specializzati. Sono tante infatti le imprese che si scontrano con le crescenti difficoltà nel reperire figure professionali. E in una situazione come questa le aziende si ‘contendono’ i pochi talenti disponibili, impegnandosi a offrire loro il migliore tra gli ambienti lavorativi. Ma quali sono gli elementi che vengono considerati più importanti dai candidati? 

L’atmosfera di lavoro è più importante della retribuzione

Quali sono i fattori più attrattivi per chi sta cercando un nuovo lavoro, o per chi, pur non avendo avviato una ricerca attiva, è aperto a nuove opportunità professionali? “Non si parla unicamente dello stipendio – spiega Carola Adami, fondatrice di Adami & Associati -. Anzi, esistono fattori che risultano importanti quanto e più della retribuzione, a partire, ad esempio, dall’atmosfera di lavoro, dalla flessibilità complessiva e dalla possibilità di avere un buon equilibrio tra vita lavorativa e vita privata”. E poi ovviamente ci sono i benefit aziendali, ovvero, gli elementi sotto forma di beni o servizi che un’azienda fornisce ai propri dipendenti al di fuori del normale stipendio mensile, e che in quanto tali rientrano nel piano di welfare aziendale.

Un elemento cruciale soprattutto per i Millennials

Per questo motivo, per attirare i talenti, diventa cruciale individuare i benefit aziendali più apprezzati dai lavoratori.
“In linea di massima è possibile affermare che ogni benefit, di qualsiasi natura, deve essere considerato come un elemento positivo in ottica di employer branding e di employee retention, soprattutto quando si parla dei Millennials – puntualizza Carola Adami -. È da questo presupposto che bisogna partire per capire quali sono i benefit che in base al proprio budget e alle esigenze dei propri collaboratori attuali e potenziali, possono risultare più efficaci”.

Formazione, bonus asili nido e spese per il terapeuta

La scelta dei migliori benefit potrebbe quindi essere differente tra aziende di vario tipo o di vario settore, “in quanto ogni settore presenta le sue unicità, così come ogni azienda: il tipo di attività, l’età media dei collaboratori, la posizione geografica sono solamente alcuni fattori da prendere in considerazione – continua Adami -. Nonostante questo, le indagini fatte negli ultimi anni ci mostrano comunque che alcuni benefit aziendali in generale sono più efficaci e apprezzati, come le opportunità di formazione e di sviluppo, l’assistenza all’infanzia, le prestazioni sanitarie. Parliamo quindi, ad esempio, dei giorni di congedo ulteriori per maternità e paternità, dei bonus per asili nido e centri estivi, ma anche delle spese per i terapeuti”.

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Osservazione della Terra: un mercato da 200 milioni di euro

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Osservazione della Terra: un mercato da 200 milioni di euro

Secondo i risultati della ricerca dell’Osservatorio Space Economy della School of Management del Politecnico di Milano, in Italia nel 2022 il mercato dei servizi di Osservazione della Terra ha raggiunto il valore di 200 milioni di euro, con 144 imprese del segmento downstream che offrono soluzioni e servizi di Digital Innovation basati su tecnologie e dati satellitari. Ed è proprio il settore dell’Osservazione della Terra il più rappresentato nelle applicazioni Satellite-Based: sono 421, la maggioranza delle 1008 censite a livello mondiale, seguite da applicazioni di navigazione satellitare (384) e di comunicazione satellitare (203).

Sensori ottici e tecnologie Sar

Il 65% del fatturato complessivo del settore Osservazione della Terra è legato a enti pubblici nazionali o sovranazionali, agenzie spaziali ed enti pubblici locali. Il 35% proviene da grandi imprese, Pmi e startup. I principali ambiti di applicazione riguardano svariati settori: agricoltura, energia, servizi di pubblica utilità, finanza, assicurazioni, ambiente, wildlife. Le imprese del segmento downstream (IT provider e System Integrator) sono 144 e hanno un’offerta eterogenea (dati, servizi, tecnologie abilitanti come piattaforme e infrastrutture). Per il 55% i sensori ottici sono la fonte dati principale, mentre il 45% si appoggia prevalentemente su tecnologie Sar (Synthetic Aperture Radar). Il 56% dei dati utilizzati proviene da fonti pubbliche europee, il 14% da fonti pubbliche extraeuropee, il 12% da dati pubblici italiani, e l’11% dati privati di grandi multinazionali.

Investimenti in startup

In termini di filiera, l’upstream (aziende dell’industria spaziale) tende ad attrarre maggiori investimenti per la necessità di progettare e sviluppare nuova infrastruttura, attestandosi al 60% del totale, mentre il downstream si attesta al 40% (circa 3,2 miliardi di euro). Le imprese integrate verticalmente raccolgono 4,5 miliardi di euro di finanziamenti (oltre 50%). L’offerta di servizi a valore aggiunto viene sempre più affiancata dalla progettazione e realizzazione dello stesso satellite. Diverse startup ormai prossime alla fase di scaling stanno adottando la logica di costruire l’infrastruttura internamente. Al fine di superare le difficoltà dovute a grandi investimenti e tempi lunghi, alcune startup hanno iniziato ad articolarsi come piattaforma di Space-as-a-Service. Data l’intensità di capitale, questa configurazione può rappresentare un vero e proprio game-changer per l’intero comparto.

Sistemi miniaturizzati e In-Orbit Services

Dal punto di vista tecnologico due macro-trend stanno rivoluzionando questo mercato. “Il primo è l’avvento di sistemi miniaturizzati combinato alla standardizzazione, che ha permesso l’avvio della produzione in serie di alcuni sistemi spaziale, favorendo la diffusione di nano-satelliti di meno di 10 kg, con una notevole riduzione di tempo e risorse necessarie nonché un risparmio del costo della messa in orbita- commentano Angelo Cavallo e Antonio Ghezzi, rispettivamente Direttore e Responsabile Scientifico dell’Osservatorio Space Economy -. Il secondo è il frazionamento, che permette di soddisfare le esigenze dei nuovi utenti del settore spaziale ed è fondamentale per l’erogazione di alcuni servizi, come gli In-Orbit Services”.

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Data maturity: se è bassa limita il successo delle aziende

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Data maturity: se è bassa limita il successo delle aziende

La data maturity è la capacità delle organizzazioni di creare valore dai dati, ma se scarseggia ostacola sia le imprese del settore privato sia di quello pubblico nel raggiungimento di obiettivi chiave. 
Ma mentre i governi di tutto il mondo sottolineano l’importanza dei dati come risorsa strategica per guidare il progresso economico e sociale, un sondaggio globale di Hewlett Packard Enterprise condotto da YouGov mostra come il livello medio di data maturity delle organizzazioni sia di 2,6 punti su una scala di 5. Più in particolare, il 14% delle organizzazioni globali si trova a livello di maturità 1 (data anarchy), il 29% a livello 2 (data reporting), il 37% a livello 3 (data insights), il 17% a livello 4 (data centricity) e solo il 3% è a livello 5 (data economy), il livello di maturità più elevato.

In Italia solo il 4% delle organizzazioni è data economy

In Italia, il 13% delle organizzazioni è data anarchy, il 31% data reporting, il 34% data insights, il 17% data centricity e il 4% data economy. La mancanza di capacità di gestione e valorizzazione dei dati, a sua volta, limita la capacità delle organizzazioni di raggiungere obiettivi chiave come l’aumento delle vendite (30%), l’innovazione (28%), il miglioramento della customer experience (24%), il miglioramento della sostenibilità ambientale (21%) e l’aumento dell’efficienza interna (21%).
Per quanto riguarda l’Italia, aumento delle vendite 34%, innovazione 32%, miglioramento della customer experience 23%, miglioramento della sostenibilità ambientale 17%, aumento dell’efficienza interna 20%.

Poco budget allocato, nessun focus strategico

Solo il 13% degli intervistati afferma che la data strategy della propria organizzazione è una parte fondamentale della strategia aziendale, e quasi la metà (48%, Italia 33%) afferma che la propria organizzazione non alloca alcun budget per iniziative relative ai dati, o finanzia solo occasionalmente iniziative relative ai dati tramite il budget IT. Inoltre, solo il 28% (Italia 29%) conferma che la propria organizzazione ha un focus strategico su prodotti o servizi data-driven. E per quasi la metà le proprie organizzazioni non utilizzano metodologie come il machine learning o il deep learning, ma si affidano a fogli di calcolo (29%, Italia 34%) o business intelligence e report preconfezionati (18%, Italia 15%) per l’analisi dei dati.

Servono architetture ibride edge-to-cloud, non viceversa

“A causa della massiccia crescita dei dati all’edge, le organizzazioni hanno bisogno di architetture ibride edge-to-cloud in cui il cloud arriva ai dati, non viceversa”, spiega Claudio Bassoli, Presidente e CEO di Hewlett Packard Enterprise Italia Bassoli.
Una caratteristica legata a un basso livello di data maturity è infatti che non esiste un’architettura globale di dati e analisi: i dati sono isolati in singole applicazioni o posizioni. Questo è il caso del 34% (Italia 39%) degli intervistati. D’altra parte, solo il 19% (Italia 14%) ha implementato un data hub o fabric centrale che fornisce accesso unificato ai dati in tempo reale in tutta l’organizzazione, e un altro 8% (Italia 13%) afferma che questo data hub include anche fonti di dati esterne.

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Blockchain: continua a crescere nonostante il cryptowinter 

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Blockchain: continua a crescere nonostante il cryptowinter 

Nonostante l’anno difficile delle crypto, che ha portato al cosiddetto cryptowinter, nel mondo non rallentano i progetti blockchain da parte di aziende e PA. Nel 2022 ne sono stati identificati 278, +13% rispetto al 2021, e tra il 2016-2022 sono state censite 2.033 iniziative a livello globale. Sono alcuni risultati della ricerca dell’Osservatorio Blockchain and Distributed Ledger della School of Management del Politecnico di Milano. In Italia il 2022 ha visto un deciso aumento dei progetti blockchain aziendali, con investimenti per 42 milioni di euro (+50% sul 2021). Nel 33% dei casi sono legati al settore finanziario/assicurativo, nel 23% alla moda, principale novità del 2022, e al retail, oltre a settore automobilistico (10%) e PA (7%). Aumenta poi l’interesse degli italiani per cryptovalute e token. Più di 7 milioni li hanno già acquistati e altrettanti sono interessati a farlo in futuro.

Calano i progetti Blockchain for business

In generale, se i progetti Blockchain for business sono in calo (67 iniziative nel 2022, -43% rispetto al 2021), rimangono però la maggioranza del totale dei casi censiti in 7 anni (568, 54% del totale). Aumentano, invece, nonostante le difficoltà delle crypto, le applicazioni Internet of Value (IoV) su criptovalute, stablecoin e CBDC per lo scambio di valore (100 iniziative nel 2022), che rappresentano il 28% del totale. Sono in forte crescita poi i progetti Decentralizedweb che più si avvicinano al paradigma Web3 (111 casi nel 2022, +98%), con applicazioni decentralizzate (DApp) e molte iniziative legate agli NFT.

Internet of Value e Blockchain for business

Le applicazioni IoV riguardano l’utilizzo di criptovalute, stablecoin e CBDC per lo scambio di valore, soluzioni sono in fase di maturazione e in cerca di legittimazione. Il collasso dell’ecosistema Terra-Luna e il fallimento dell’exchange FTX, avvenuti nel 2022, hanno messo a dura prova la fiducia di aziende e consumatori, contribuendo al crollo del mercato crypto e a un impatto negativo sulle aziende del settore. Un secondo ambito di applicazione IoV è quello dei progetti in cui i processi di business tradizionali vengono replicati utilizzando tecnologie blockchain. Il momento di difficoltà di tali progetti non è sintomo del fallimento di una tecnologia, ma della complessità di progetti di ecosistema ampi.

Decentralized web

I progetti di Decentralized web sono cresciuti molto nel 2022, anche grazie al forte hype sviluppato nel 2021 sugli NFT, soprattutto con la creazione di digital collegabile. Sempre più spesso le aziende provano a costruire strategie di business intorno agli NFT che includano anche l’accesso a servizi esclusivi o esperienze nel Metaverso. In particolare, nel business della moda e del lusso.
Anche le applicazioni decentralizzate hanno proseguito la loro evoluzione. Le DAO e i sistemi di governance distribuita su blockchain, in particolare, hanno attirato l’attenzione di aziende tradizionali. Anche se questi modelli decisionali partecipativi e decentralizzati sono utilizzati quasi esclusivamente dalle DApp più mature, come quelle del mondo DeFi.

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Outsourcing: 30.000 imprese e un fatturato da 19 miliardi di euro

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Outsourcing: 30.000 imprese e un fatturato da 19 miliardi di euro

A quanto emerge dal rapporto dal titolo La seconda transizione dell’outsourcing, realizzato dal Censis in collaborazione con il Gruppo De Pasquale, oggi in Italia le imprese che gestiscono processi di outsourcing sono circa 30.000, contano 200.000 occupati, e hanno realizzato un fatturato che si attesta sui 19 miliardi di euro, per un valore aggiunto di 9,4 miliardi. Il report identifica le leve che possono portare l’esternalizzazione dei processi ad assumere anche il ruolo di motore della crescita e dell’innovazione nelle imprese, ed evidenzia le traiettorie che si stanno consolidando.

In Italia la crescita interessa l’intero Business process outsourcing

Il Censis ha elaborato una stima del valore del settore dell’outsourcing, inteso come l’insieme di attività e processi che le aziende o gli enti affidano a terze parti in base alle diverse strategie perseguite. Il report conferma il percorso di crescita che in Italia sta interessando l’intero Business process outsourcing (Bpo). Nel confronto con i dati al 2016, già nel 2019 si registrava un aumento del 15,8% nel numero di imprese che gestiscono processi di outsourcing, una crescita dell’occupazione del 13,3% e un incremento del fatturato pari al 15,5%.

Si prospetta un cambiamento di paradigma

Si prospetta però un cambiamento di paradigma: le aziende che esternalizzano processi e servizi hanno maturato una maggiore consapevolezza in merito ai vantaggi che derivano dai meccanismi di integrazione, scambio, collaborazione, sia in un’ottica di espansione (outward looking) sia secondo una logica di ottimizzazione (inward looking).  La ricerca di nuovi mercati e nuovi clienti spinge la collaborazione tra le imprese. Questo, in particolare per il 38,7% delle imprese, cui fa seguito la necessità di contenere i costi (36,1%) e di sviluppare l’innovazione di processo o di prodotto (22,9%). Il 20% delle aziende poi si concentra sulle partnership per acquisire nuove competenze e tecnologie, accrescere la flessibilità organizzativa e implementare strategie di internazionalizzazione.

Un sistema produttivo estremamente frammentato

Le relazioni fra le imprese, facilitate dalla digitalizzazione e da una competizione che si sposta dal livello di singola impresa e di singolo territorio al livello di ecosistema, riducono i condizionamenti della piccola dimensione d’impresa, e favoriscono la creazione di valore aggiunto su una scala più ampia. Questo elemento assume un’importanza decisiva a maggior ragione in Italia, vista la persistenza di modelli imprenditoriali a scala ridotta e la difficoltà di innalzare la dimensione media delle aziende. Fattori che rendono il sistema produttivo di beni e servizi estremamente frammentato, con oltre 4 milioni di imprese con meno di 10 addetti, e poco più di 4.000 che superano la soglia dei 250 addetti.

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Crisi energetica e inflazione spingono verso la finanza sostenibile

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Crisi energetica e inflazione spingono verso la finanza sostenibile

Finanza sostenibile, e più in generale tutto ciò che può “sostenere” la transizione energetica, stanno diventando temi all’ordine del giorno per gli italiani. Tanto che proprio la finanza sostenibile riscuote sempre più interesse: il 79% dei risparmiatori conosce gli investimenti sostenibili e il 22% (contro il 18% del 2021) ha già sottoscritto prodotti SRI. I numeri sono emersi durante l’undicesima edizione delle Settimane SRI, la principale rassegna in Italia sulla finanza sostenibile, si è aperta con un approfondimento sugli orientamenti degli investitori retail rispetto a un tema attuale e di grande rilievo internazionale: la transizione energetica. Nel corso del convegno sono stati presentati i risultati della ricerca “Risparmiatori italiani e transizione energetica”, realizzata dal Forum per la Finanza Sostenibile in collaborazione con BVA Doxa. Lo studio, condotto tra maggio e settembre 2022, ha coinvolto 1.400 risparmiatori che hanno investito nell’ultimo anno almeno €1.000, di cui 510 con almeno €20.000 investiti.

Le principali preoccupazioni degli italiani

Gli eventi dell’ultimo anno (l’aumento dei prezzi dell’energia, lo scoppio della guerra in Ucraina e la caduta del governo) hanno aperto una nuova fase di incertezza. Oltre l’80% dei rispondenti si dichiara molto o abbastanza preoccupato per l’aumento dei costi dell’energia e per l’inflazione. Tra le principali sfide da affrontare viene indicata la crisi energetica (62%), seguita dal carovita (48%) e dal cambiamento climatico (33%). Questa situazione ha fatto sì che il tema della transizione energetica sia stato spesso presente nei media, ma solo 2 risparmiatori su 10 dichiarano di conoscerlo bene, mentre il 55% degli intervistati afferma di avere una conoscenza superficiale in merito e il 22% ne ha solo sentito parlare. Tuttavia, la transizione energetica viene vista da oltre la metà dei rispondenti (51%) come una trasformazione necessaria, i cui vantaggi e opportunità nel medio-lungo termine supereranno di gran lunga i costi nel breve termine. Il 35% dei risparmiatori associa poi al processo di transizione la possibilità di raggiungere l’autosufficienza energetica e un risparmio sulle bollette. Inoltre, circa l’80% del campione concorda sul fatto che la transizione energetica potrà offrire opportunità di investimento e di lavoro, con la creazione di nuove competenze, anche se il 70% è convinto che gli effetti positivi della transizione energetica si vedranno solo in futuro.

Cautela e prudenza

Tra gli ambiti di intervento prioritari per la transizione energetica i risparmiatori citano soprattutto l’aumento della produzione di energia da fonti rinnovabili (fondamentale per il 55% dei rispondenti) e lo sviluppo delle tecnologie collegate sia a queste ultime sia all’efficientamento energetico (rilevanti per 4 rispondenti su 10). Ci sono però delle incertezze per quanto riguarda gli investimenti: rispetto all’anno precedente, il 2022 è caratterizzato da un maggior disorientamento e da un aumento della sfiducia verso le istituzioni nazionali e internazionali. Nella crescente incertezza dell’ultimo anno, cautela e prudenza sono le parole chiave che continuano a indirizzare le scelte finanziarie. La maggior parte dei risparmiatori predilige investimenti a basso rischio o a rischio moderato, con un orizzonte temporale tendenzialmente più lungo rispetto al 2021. Solo il 4% dei rispondenti si orienta su investimenti a rischio elevato. Percentuale che sale al 9% per chi ha almeno €20.000 investiti.

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Spreco alimentare e impatto sul consumo energetico

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Spreco alimentare e impatto sul consumo energetico

Serve un’enorme quantità di energia per produrre, distribuire e cuocere alimenti, che nonostante siano ancora commestibili, diventano fin dall’origine un surplus inutilizzato. Lo spreco alimentare è di conseguenza anche spreco energetico. Secondo lo Studio effettuato dall’Università di Bologna, in collaborazione con ENEA, il 3% del consumo energetico dipende dallo spreco alimentare. La quantità enorme di produzione agricola e alimentare che marcisce in campo o in discarica, dopo essere stata lavorata non è quindi solo un problema etico e sociale, ma anche energetico. Per quanto riguarda l’Italia, ogni cittadino getta in media 30,3 grammi di frutta alla settimana, 26,4 grammi di insalata e 22,8 grammi di pane fresco.

Due “sprechi” che vanno di pari passo

Lo spreco di energia derivante dal cibo sprecato in Italia vale 4,02 miliardi euro. Un costo che porta a circa 11 miliardi euro complessivi il valore dello spreco alimentare domestico, sulla base di un costo dell’energia elettrica di 0,4151 euro/kWh. Il 3,2% della produzione agricola totale rimane a marcire sul campo: 1,5 milioni di tonnellate di alimenti che per arrivare a maturazione hanno consumato la stessa quantità di energia che potrebbe riscaldare 400mila appartamenti ad alta efficienza. Questi rifiuti alimentari finiscono poi nelle discariche a marcire, rilasciando gas serra (GHG). E se a questo si combina la quantità di energia necessaria per raccogliere, produrre, trasportare e conservare questo cibo, si arriva a 3 miliardi di tonnellate di anidride carbonica. 

Un rimedio arriva dalle nuove tecnologie per l’agricoltura

Se lo spreco di cibo fosse un paese sarebbe il terzo più grande emettitore di gas serra nel mondo, dopo Stati Uniti e Cina. Uno dei rimedi è dato dalle nuove tecnologie per il settore dell’agricoltura (agricoltura di precisione, biologica, produzione locale), ma anche dalla valorizzazione degli scarti agricoli e alimentari per il recupero energetico (energia da biomasse). L’It, in particolare, può contribuire alla razionalizzazione delle produzioni agricole e alimentari, soprattutto quando si tratta di rendere più efficienti i processi di produzione e trasformazione, e assecondare la variabilità della domanda grazie alla raccolta e all’elaborazione in tempo reale delle informazioni.

Biometano: una fonte di energia rinnovabile 100% Made in Italy

Il biometano deriva dal trattamento del biogas prodotto dai residui dei raccolti agricoli, dalla fermentazione di letame, scarti alimentari, erba e foglie.
Si tratta di una vera e propria fonte di energie rinnovabili, che sfrutta la degradazione di materiali che se lasciati nell’ambiente o nei campi libererebbero gas serra nell’atmosfera. È un tema centrale dell’economia circolare, poiché riveste un ruolo chiave anche nella soluzione del problema relativo allo smaltimento dei rifiuti. Recentemente, la Commissione europea ha approvato 4,5 miliardi di finanziamenti all’Italia per sostenere la produzione di biometano. La misura rientra nella strategia per ridurre la dipendenza dal gas russo e aumentare la quota di energia rinnovabile nel mix energetico.
Il biometano rappresenta infatti l’unico biocarburante 100% Made in Italy, e potrebbe essere determinante soprattutto per il settore dei trasporti.